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LA PATERNITA’ NELLA STORIA

l'evoluzione del concetto di paternità nella storia

LA PATERNITA’ NELLA STORIA

STORIA DELLA PATERNITÁ

Capitolo estratto dalla Tesi di Laurea:

“Diventare padri oggi.  L’esperienza emotiva dell’uomo in gravidanza”

curata dalla dott.ssa Valentina Roticiani. Relatore Prof. Massimiliano Stocchi

Introduzione

Fino a pochi decenni fa la paternità, a differenza della maternità, non ha avuto dignità di oggetto nelle analisi storiche, sociologiche, psicologiche e, tranne poche eccezioni, neppure nell’ambito della narrativa. Questo perché quella della paternità è in realtà una questione complessa e sfaccettata; d’altro canto, quale rapporto è cosi profondo, misterioso, contraddittorio come quello che lega un genitore ad un figlio? Più viscerale quello materno, per il vissuto biologico che lega la madre ai figli mentre quello paterno più indotto, più culturale ma certo non meno significativo.

Ovviamente avere un quadro esatto della paternità in una determinata epoca e in un preciso paese è compito tutt’altro che facile in quanto si tratta di un rapporto non omogeneo e univoco perché segnato da forti differenze sociali, ambientali, temporali e individuali.

Si deve considerare inoltre che, specialmente in epoche antiche, le fonti da cui poter dedurre un costume familiare diffuso sono prevalentemente letterarie e che di solito riflettono una famiglia e un ambiente colto o di censo elevato.

Tuttavia le fonti attraverso le quali è possibile tracciare un identikit della figura paterna sono innumerevoli e riguardano tutte le forme di arte: dalla pittura alla letteratura, dal teatro alla poesia e alla scultura, ma possono comprendere anche lettere, leggi, diari, cronache, atti giuridici e persino attraverso le iscrizioni funerarie è possibile cercare di comprendere il rapporto tra padre e figli. Ovviamente la maggior parte di esse sono fonti non scientifiche in quanto non oggettive. Quindi, come è cambiata la figura del padre nel corso del tempo? Si cercherà di rispondere ripercorrendo la lunga storia della paternità: dalla mitologia greca al ruolo misterioso che ricopriva nella cultura etrusca, dalla centralità nell’antica Roma al modificarsi della sua funzione sociale col cristianesimo, dalla nuova educazione illuminista alla nascita della psicanalisi fino ad arrivare alla seconda metà del Novecento con le contestazioni giovanili, l’emancipazione femminile e la recente rivoluzione paterna.

CONSULENZA PULSANTE

Etimologia della parola “padre”

Rintracciare un’etimologia per la radice della parola padre che si ritrova in quasi tutte le lingue indoeuropee non è semplice e a tutt’oggi ci sono solo numerose ipotesi. Il termine “padre” sta ad indicare l’uomo che ha generato rispetto alla prole e anche all’ambito familiare.

Padre deriva dal latino pater, per indicare il nome del capofamiglia, che, a sua volta, contiene la radice “pa” di pascere (nutrire, proteggere). Giovanni Lobrano e successivamente Jost Trier[1]  ritengono che la radice della parola derivi da po(i), col significato di proteggere ed escludono che il significato di pater possa ricondursi alla funzione procreativa: è molto probabile che in origine questa parola non avesse nulla a che fare con il ruolo biologico del padre dal momento che, per lungo tempo dopo la comparsa dell’uomo, si ignorò il rapporto tra unione sessuale, gravidanza e parto e si attribuiva la fecondazione della donna a elementi naturali, come la luna, un fiore, un frutto, una stella, la pioggia, il vento escludendo qualsiasi forma di partenogenesi.

Secondo diversi studi storici sulle culture primitive è durante il Neolitico che avviene la scoperta, da parte dei nostri progenitori, della connessione tra il concepimento e la procreazione e quindi, della presenza dell’elemento maschile nell’evento della nascita. Il concetto di paternità fisiologica nasce a causa dei cambiamenti di abitudini delle popolazioni primitive e dell’intensificarsi dell’attività dell’allevamento, che permise l’osservazione diretta dei comportamenti degli animali in cattività[2].

L’etimologia viene in aiuto a delimitare un’area di significato e di senso che acquista particolare valore anche in relazione alle trasformazioni storiche e culturali dello stesso concetto di padre. Infatti, nel corso della storia, questi significati hanno avuto un valore d’uso e quindi accezioni molto diverse che spesso si sono riflesse all’interno delle concezioni giuridiche, dei codici.

Quella del padre è comunque una figura dalle mille sfaccettature, spesso conflittuali, difficili da identificare nel suo ruolo e nella sua funzione. Un aspetto però, si è perpetuato nel tempo, fino a qualche anno fa: il padre come gestore dell’autorità e del potere. Egli incarnava l’autorità, nel bene e nel male, in molteplici modi, tenendo  in alcuni casi  soggiogati a sé la moglie e i figli anche fino a tarda età e difficilmente lasciava la leva del comando, controllando la vita dell’intera famiglia.

La paternità nella Preistoria

Ricostruire la storia della paternità nella preistoria è molto difficile anche perché non ci sono fonti che descrivono la storia degli antichi popoli d’Italia fino all’ ottavo secolo a.C. tuttavia, si può affermare, grazie anche agli studi di Malinowski[3] (compiuti nelle isole Trobrian), che la società nella preistoria è di tipo matrilineare. Infatti, è la madre che determina l’origine, la parentela e tutte le relazioni sociali. Ed è sempre la donna che si occupa di alcune attività economiche, cerimoniali e magiche ed ha una parte considerevole nella vita tribale.

Per quanto riguarda il padre, ha solo una connotazione sociale: è l’uomo sposato con la madre, che vive nella stessa casa.

Rispetto al rapporto con i figli, il padre, è presente essenzialmente nella prima infanzia; l’uomo gioca con il piccolo, si occupa della cura, l’istruzione, manifesta affetto. Tuttavia, con l’aumentare dell’età è lo zio, il fratello della madre, ad acquistare maggiore autorità: richiedendo i suoi servizi, concedendogli o negandogli l’autorizzazione a certe azioni, il bambino, infatti, in tempi preistorici  appartiene al clan totemico materno e non a quello paterno.

Gli studi di Malinowski hanno favorito lo sviluppo di un filone etnologico e antropologico (anni ’70 del secolo scorso) che sostiene l’esistenza di una fase matriarcale collocabile nel paleolitico (2.000.000-8000 ca a.C.). Tali studi che sottolineano l’esistenza di un “matriarcato preistorico” si rifanno a Bachofen[4]; lo studioso svizzero sostiene di aver scoperto nella storia dell’umanità un “era ginecocratica” in cui dominava la donna e dove, il potere familiare sarebbe appartenuto alle madri e non ai padri e il dominio politico sarebbe stato nelle mani delle donne e non degli uomini. Dunque, secondo Bachofen, nel bacino del Mediterraneo sarebbe esistita una civiltà pelasgica nella quale avrebbe dominato la madre, civiltà nata, ipotizza lo studioso, dall’immigrazione in Italia di popoli provenienti dall’Asia.

Le ipotesi di Bachofen trovarono però anche degli oppositori tra cui Wesel, Lenzen, Goody e più recentemente Eva Cantarella che prendono le distanze dalla tesi del matriarcato. Tuttavia, che le ipotesi di Bachofen fossero valide o meno, assistiamo, secondo Lenzen[5] tra il 5000 e il 4000 a.C, alla scoperta del nesso tra atto sessuale e fecondazione, e dunque, alla nascita dell’archetipo dell’autorità e all’affermazione del patriarcato. Questo non vuol dire che prima di tale periodo non vi fossero comportamenti paterni, esistevano infatti forme di cure parentali come la protezione nei confronti dei piccoli e il procacciamento di cibo per il loro nutrimento.

La presa di coscienza del ruolo svolto dal padre nella procreazione fa acquisire alla figura del padre un valore nuovo e in molti utilizzano questa immagine assegnandole un ruolo mitico nella nascita dell’umanità. Ad esempio, Platone nelle leggi individua i “polifemi” come i primi padri di famiglia del mondo.

Forse il più antico documento scritto che parla del rapporto tra padre e figlio è il racconto di un ragazzo vissuto in Mesopotamia circa 4000 anni fa, è inoltre possibile trovare riferimenti al padre nei testi sacri indiani Veda (risalenti al periodo tra il 1500 e l’800 a.C.). In essi il padre ha un autorità assoluta ed è l’unico responsabile delle azioni di moglie e figli di fronte alla legge e alla società. Cosi la figura del padre entra in scena anche in ambito giuridico, riferimenti si trovano in quasi tutte le raccolte di leggi più antiche tra cui quelle sumeriche, assire, babilonesi, ittite, egiziane ed ebree. In queste antiche disposizioni si possono trovare atteggiamenti ricorrenti: il padre insegna al figlio, svolgendo una chiara funzione educativa; il figlio è sottomesso al padre e duramente punito se si ribella[6].

La paternità nella Grecia antica

Per tracciare un profilo della paternità nella Grecia antica si deve far riferimento ad un lungo arco temporale che comprende: il periodo Arcaico( 800- 500 ca. a.C.), il periodo Classico, delle Poleis (V e VI sec a.C.), il periodo Ellenistico( dal 336 al 31 a.C.) e il periodo Romano(dal 31 a.C fino al 565 d.C). Interessante è vedere come le differenze non si osservano solamente nei secoli ma anche tra la famiglia di Atene e quella di Sparta, tra le grandi città e le campagne; tuttavia, hanno tutte un denominatore comune ovvero il dominio della figura paterna la quale escludeva donne e minori in quanto visti entrambi come un pericolo per la propria supremazia: nelle donne un pericolo nel presente, nei figli un pericolo per il futuro[7].

Tuttavia i padri greci non vedevano nei propri figli solamente una minaccia, difatti, si è parlato spesso di severità, controllo dei propri sentimenti nei momenti più dolorosi come la perdita di un figlio e a volte anche di anaffettività, ma esistono anche dei nobili esempi di affetto paterno e di dolore in caso di perdita. Ad esempio, il grande politico ateniese Pericle (495 ca. a.C. – 429 a.C.) non fu mai visto piangere, con una sola eccezione: la morte del suo ultimo figlio legittimo Paraclo: “cercò di resistere e di controllarsi, ma mentre poneva una corona sul capo del morto, il sentimento lo vinse ed egli scoppiò in prolungati singhiozzi”[8].

Quindi vediamo che, le pratiche più dure potevano persino convivere con un profondo affetto. Il rapporto padre-figlio godeva inoltre di un importante riconoscimento sociale. Il primo gesto richiesto al genitore infatti era quello di accogliere il bambino nella propria famiglia con un riconoscimento di paternità vero e proprio: il padre pochi giorni dopo la nascita presentava il figlio ai membri della phratria[9] attraverso una cerimonia solenne accompagnata da un sacrificio propiziatorio e da un banchetto. L’ingresso vero e proprio nella società sarebbe avvenuto al compimento del diciottesimo anno con l’iscrizione se maschio nei registri del demo, la circoscrizione territoriale. Tale iscrizione segnava l’emancipazione del giovane dal potere paterno, passaggio che rappresentava una marcata differenza nel rapporto padri figli rispetto all’antica Roma.

Anche la scelta del nome spettava al padre, Socrate riteneva che dare un bel nome ai figli fosse compito degno della cura paterna e nel caso che il bambino fosse formalmente riconosciuto e tenuto dal padre spettava poi alla madre l’allevamento. Infatti, nella famiglia patriarcale la madre dominava tutti i primi anni del figlio dopodiché intorno ai sette anni era compito del padre intervenire nell’educazione del figlio, sia direttamente, sia attraverso un maestro.

Quando poi i figli erano in età da matrimonio, il padre nel caso di figlie femmine, si accordava con il pretendente e formalizzava il passaggio della ragazza, la quale  non aveva voce in capitolo, passava dalla sua tutela a quella del marito. Per quanto invece riguarda il figlio maschio, una volta cresciuto e divenuto adulto, era vincolato al padre anziano, in quanto spettava a lui l’obbligo di prendersi cura del padre e mantenerlo: il rispetto, l’ubbidienza e la  sottomissione da parte dei figli furono per molti secoli un canone dal quale non si derogava e non era solo un dovere morale, ma anche un obbligo sociale e legale e la trascuratezza verso i propri genitori veniva sanzionata con conseguenze anche politiche. Ad esempio, dagli scritti di  Aristotele sappiamo che gli arconti, i più alti magistrati di Atene, potevano accedere a tale carica solo se superavano un esame previsto dal diritto pubblico della città, che tra l’altro prevedeva una raccolta di informazioni sulla loro tomba di famiglia e si indagava se esistevano a loro carico episodi di ingratitudine verso i familiari[10].

Proprio il rispetto per il genitore garantiva che l’anziano non venisse mai lasciato a se stesso, ma se questa circostanza veniva a mancare, o il figlio moriva, si verificavano situazioni molto spiacevoli, non solo perché qualcuno si sarebbe potuto impadronire dei beni paterni ma anche e sopratutto perché nessuno avrebbe preso le difese di un genitore ormai incapace di farlo da solo. Il vincolo che legava il giovane all’anziano padre si spezzava solo nel caso di figli bastardi ( non riconosciuti).

È quindi chiaro che nella Grecia Antica padre e figlio erano legati da un rapporto di reciproca cura che si evolveva e modificava nel corso delle loro vite e, se nell’infanzia era il padre che si rivelava indispensabile per il bambino, una volta invecchiato era il padre a non poter fare a meno del figlio.

Vediamo quindi che la cultura Greca costruisce l’idea di paternità sulla propria visione politica, privilegia la sfera pubblica a quella famigliare e il rapporto padre-figlio è essenzialmente basato su una funzione di bisogno[11].

La paternità nell’antica Roma

Un elemento fondante la storia di Roma è la figura del padre. Non a caso, secondo Plutarco, dopo la fondazione dell’Urbe (753 a.C.), Romolo chiamò “Patrizi”, proprio perché patres di figli legittimi, i cento migliori cittadini scelti per costituire il Senato. Anche se il valore assegnato al padre è più evidente nei primordi della storia di Roma, resterà sempre ben chiaro che l’autorità del genitore ed il rispetto verso di esso sono, anzitutto, una legge di natura, esattamente come la devozione dovuta agli dei.

Nelle parole di Cicerone[12] è possibile vedere la reciprocità del rapporto padre-figlio; tale relazione è segnata dalla natura delle azioni delle due parti: padre e figlio sono orgogliosi delle gesta positive compiute dall’altro o subiscono entrambi l’onta di quelle disdicevoli.

Per i figli il padre romano fu quindi indubbiamente scomodo, duro e opprimente come un macigno. Ma anche un esempio al quale rifarsi , un inimitabile modello per divenire non solo un buon erede, ma soprattutto un buon cittadino. Dal canto loro, i padri avevano forse il timore di essere scalzati dai propri figli, ma certo quest’ultimi rappresentavano anche la proiezione del loro orgoglio e un investimento non solo affettivo: l’idea che ci fosse chi continuava la gens e ne avrebbe raccolto un giorno l’eredità, che qualcuno si sarebbe occupato dei genitori anziani come voleva la pietas e avrebbe rispettato le incombenze della sepoltura, era motivo di grande consolazione[13].

Nell’antica Roma il rapporto padre-figlio si fondava su due nozioni, quella del pater familias e quella della relativa patria potestas.

Su tali concetti gli storici,  i sociologi e gli studiosi del diritto romano hanno posizioni divergenti. Innanzitutto occorre spiegare cos’era la familia: essa va intesa come  “società familiare” e comprendeva tutte le persone che vivevano sotto la protezione del pater familias nella stessa casa: quindi non solo la moglie e i figli ma anche parenti, schiavi ed eventuali altri bambini nati dai rapporti con le schiave. Una familia romana poteva comprendere persino cento o più persone, e avere una prole cospicua era ritenuto un fondamento della società, ciò si evince anche dal fatto che il pater familias traeva benefici nell’assegnazione delle cariche pubbliche rispetto ai candidati senza figli.

Per quanto riguarda i diritti del pater familias  erano enormi e spaziavano dall’aspetto economico e politico a quello educativo e religioso e il suo compito principale era quello di garantire una corretta integrazione del proprio gruppo nella società- civitas- e l’ubbidienza allo Stato. In un unico caso, però, il pater familias doveva cedere la sua autorità domestica: quando erano in gioco gli interessi e l’immagine del bene pubblico.

Per quanto riguarda l’aspetto religioso, il pater familias è sacerdote a casa sua: è lui che compie sacrifici agli dèi della casa, i lares familiares, assicurando la loro protezione all’interno dell’ambiente domestico.

Ulteriore funzione svolta dal potere paterno è quella giudiziaria: il pater familias aveva il diritto di esercitare la legge all’interno della sua famiglia esattamente come un magistrato, decretando e infliggendo pene e sanzioni non solo per reati che avevano attinenza con la famiglia, ma anche per i crimini pubblici normalmente di competenza della magistratura ordinaria. Il potere giuridico del pater familias si esercitava in quattro diritti fondamentali:

-lo ius exponendi: il diritto di esporre i figli neonati. Il pater familias poteva infatti decidere se tenere il figlio e riconoscerlo, o liberarsene, facendolo esporre nelle pubbliche discariche o sui gradini di un tempio.

-lo ius vendendi: il diritto di vendere il figlio all’estero per semplice lucro. Successivamente fu stabilito che la vendita potesse avvenire anche in territorio romano, o in una città della lega latina. In questo caso il figlio non diventava schiavo, ma assumeva lo stato di figlio in mancipio: condizione che portava uno stato diverso ma non meno gravoso.

– lo ius noxae dandi: il diritto del padre a cedere ad altri un figlio per liberarsi delle conseguenze giudiziarie di un atto illecito commesso dal padre. Questa inaccettabile forma di schiavitù, più volte contestata dalla plebe venne abrogata nel 326 a.C.

-lo ius vitae et necis: il diritto del padre di vita e di morte sul figlio. In realtà pare che tale diritto non sia stato esercitato molto spesso e che sia rimasto in vigore solo per una parte della storia di Roma.

Per quanto riguarda l’allevamento e l’educazione dei figli, il rapporto tra il piccolo romano e suo padre seguiva tappe stabilite. Almeno durante lo svezzamento, che si protraeva fino ai tre anni, il bambino era nella sfera di influenza materna. Era la madre, naturalmente assistita da un numero maggiore o minore di schiave e nutrici a seconda del censo, che accudiva il piccolo, ne curava la crescita e la pulizia, secondo un programma decisamente rigido, infatti, solo la metà dei bambini raggiungeva la pubertà, anche a causa di certi trattamenti (per esempio, il piccolo era lavato nell’acqua fredda affinché il corpo non si infiacchisse), ai quali andavano aggiunte condizioni igieniche approssimative, malattie infantili e epidemie[14].

Finito lo svezzamento il bambino usciva più o meno gradatamente dall’orbita materna per entrare in quella paterna. Intorno ai sette anni, il padre cominciava a occuparsi personalmente della sua educazione, addestramento e istruzione, oppure lo affidava a uno o più precettori o, infine, lo mandava a scuola. Il figlio, almeno a Roma, iniziava a seguire il padre nella vita pubblica quando non era ancora adolescente, ne osservava i comportamenti e ne studiava le relazioni. A diciassette anni il ragazzo romano abbandonava la toga praetexta per indossare quella virilis, tale cerimonia segnava la fine dell’età dei giochi e l’inizio della vita adulta.

Il grande potere del pater familias potrebbe indurre alla convinzione che il rapporto padre-figlio fosse caratterizzato esclusivamente da un’estrema severità, in realtà, anche ai tempi della Repubblica, quando la durezza dei costumi imponeva che l’autorità del padre fosse netta e il rispetto del figlio totale, l’amore non era escluso. Ad esempio, Ottavio Balbo, proscritto dai triumviri nel 54 a.C., per sfuggire ai sicari, uscì furtivamente dalla porta posteriore della sua casa poco prima che questi giungessero per ucciderlo, ma quando si rese conto che essi potevano prendersela con il figlio torno sui suoi passi per salvare il ragazzo anche se poi perse la vita[15].

Alcuni episodi di cronaca testimoniano inoltre l’amore dei figli verso i padri. Per esempio, il primo spettacolo di gladiatori organizzato a Roma fu voluto dai figli dell’ex console Giunio Bruto Pera, per onorare la memoria del genitore[16].

Come si può vedere, l’idea del pater familias della civiltà romana rappresenta un’evoluzione discontinua del modello greco. La famiglia è concepita come un sottosistema della società e, di conseguenza, il padre autoritario ha il compito di trasmettere alla discendenza un patrimonio, una collocazione e un ruolo preciso nella comunità. Le modalità di manifestazione del rapporto tra padre e figlio, nel mondo classico, sono costituite prevalentemente dall’autorità e dall’austerità della figura paterna che domina, con il suo ruolo, la piccola comunità famigliare anche se, in alcuni casi,  è possibile riscontrare episodi d’amore tra padre e figli.

Il Medioevo

Per quanto riguarda la famiglia nel suo complesso, fino all’XI-XII secolo essa ha dimensioni piuttosto estese, rifacendosi un po’ al modello della familia romana.

A partire dal XII secolo, però, assume dimensioni più simili a quelle della famiglia moderna: padre, madre e figli, per un totale di solito dai tre ai cinque componenti; tuttavia l’antica forma dell’aggregato patriarcale rimane invariata: è il padre il perno sul quale ruota l’asse famigliare. Il padre è a tutti gli effetti pater familias come in età romana; i figli escono di minorità a diciotto o venticinque anni, a seconda delle zone e delle abitudini e tuttavia nulla li sottrae all’autorità paterna, neppure il fatto che abbiano un abitazione e una nuova famiglia con moglie e figli[17]. Il padre può emanciparli, con un atto notarile, oppure può richiederne l’emancipazione per legge, con l’attribuzione della sua quota ereditaria, se il figlio è eccessivamente spendaccione.

Ma c’e’ anche il rovescio della medaglia: il padre può subire una specie di interdizione se va dissipando (con il bere, il gioco, le donne) i suoi beni e può essere obbligato a consegnare ai figli la loro quota legittima.

Non diversamente dal mondo romano, anche in quello medievale è il padre che decide, in base a calcoli politici, dinastici, di natura economica, il futuro matrimoniale dei suoi figli. I matrimoni avvengono prestissimo, intorno ai quindici, sedici anni o anche meno in quanto, l’età legale è di dodici anni e, ancor prima delle nozze, accade che i fidanzamenti vengano decisi a tavolino.

Nel Medioevo il padre non è solo colui che decide delle nozze, può decidere anche il divorzio di un figlio o di una figlia, potere che andrà attenuandosi con il trascorrere dei secoli. Ed è sempre al padre, prima ancora che ai fratelli o al figlio, che una donna chiede giustizia se il suo onore è stato leso dal marito.

Anche nel Medioevo, le cronache del tempo non scavano nei rapporti affettivi fra un genitore e un figlio, tuttavia la storia del Medioevo non manca di esempi di amore paterno rivolto soprattutto alle figlie. Ad esempio, Gian Galeazzo Visconti, uomo di pochissimi scrupoli, manifestò sempre grande affetto per la figlia Valentina, tanto che quando, ventunenne, andò sposa nel 1387 a Luigi D’Orlèans, fratello del re di Francia, il padre abbandonò Pavia per non assistere alla sua partenza, poiché non avrebbe potuto prender congedo da lei senza scoppiare in lacrime[18]. E quando, nove anni dopo, Valentina fu allontanata da Parigi e relegata nella sua residenza di campagna per ostilità della regina e il disinteresse del marito, Gian Galeazzo mutò il suo atteggiamento nei confronti della Francia, di cui divenne da allora nemico, e minacciò di inviare una squadra di cavalieri a difesa della figlia.

In genere comunque, coccole e tenerezze non facevano parte del bagaglio di un padre medievale, e spesso neppure di una madre. Del resto anche la pedagogia dell’epoca, sia che fosse affidata a cure parentali, sia che se ne facesse carico qualche istruttore, prevedeva sistemi di insegnamento molto spicci. Un esempio curioso del tempo, ricordato da alcuni storici, era un metodo utilizzato per imprimere nella memoria di un bambino un evento importante: il piccolo veniva schiaffeggiato violentemente in modo che l’associazione tra l’evento e il dolore rendesse incancellabile il ricordo[19].

Se il rapporto tra padre e figlio era solitamente di lontananza affettiva nella vita ordinaria tale rapporto rimaneva pressoché immutato anche in situazioni difficili o drammatiche. Ad esempio nella grande epidemia che flagellò l’Europa a partire dal 1347 e che fece morire circa un terzo della popolazione esistente, i cronisti segnalano spesso casi di genitori che abbandonano i propri figli (o viceversa). Va anche ricordato che a volte i signori del Medioevo si ritrovavano padri (e le nobildonne madri) in età giovanissima, il che certo non facilitava il sorgere di una responsabilità nella cura dei figli. Inoltre, nella concezione del Medioevo, i bambini dovevano essere educati rigidamente nei precetti religiosi imparando a mortificare la carne e ad esaltare lo spirito fin da piccoli, con penitenze, digiuni, fioretti. Agostino infatti, nelle confessioni, affermava che gli impulsi personali del bambino andavano frenati e indirizzati dall’adulto, che gli doveva insegnare la rinuncia e la preghiera. Tuttavia, se al padre veniva attribuita maggiore responsabilità nell’educazione, era sempre a lui che, secondo la Chiesa, andava attribuito più amore. Come già in epoca romana, il bambino trascorreva l’infanzia in un ambiente femminile: la madre, la nonna, le zie, le inservienti, per poi essere affidato, se maschio, a maestri che gli insegnavano l’esercizio e la disciplina del corpo attraverso le armi e l’arte della caccia. Di solito tale apprendistato non avveniva nell’abitazione paterna, a meno che non si trattava di una residenza reale. Il ragazzo di solito infatti si trasferiva in casa di uno zio materno o nel castello del feudatario da cui il padre dipendeva, o ancora, da un signore vicino dove svolgeva funzioni di paggio. A quattordici o quindici anni, poi, doveva iniziare il combattimento vero e proprio in quanto considerato pronto per la guerra[20].

Se per un figlio maschio il passaggio in giovane età dal mondo materno a quello paterno era assolutamente doveroso, per le bambine bastava un’educazione molto sommaria e la loro vita continuava a svolgersi esclusivamente fra donne in quanto erano considerate solo come oggetto di transazione per le nobili casate. Imparavano a cucire, ricamare e al massimo recitare versi e la vera dote sulla quale si insisteva molto e sulla quale venivano puntigliosamente educate era quella dell’obbedienza.

Da quanto detto finora sembrerebbe che tra genitori e figli il rapporto fosse piuttosto freddo e distaccato, ma naturalmente non si deve generalizzare. Cosi come accadeva per il pater familias dell’antica Roma, dove durezza e intransigenza potevano coesistere con paternità affettuose e persino tenere, anche nel Medioevo ci sono esempi di padri affettuosi nei riguardi della propria prole e di figli non solo rispettosi ma anche premurosi e affezionati.

A questo proposito Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) riporta una storia: durante un litigio, una donna aveva rivelato al marito che solamente uno solo dei tre figli era figlio suo senza però dirgli quale. Poco tempo dopo la donna morì e successivamente anche il marito, il quale nel testamento lasciò tutto al suo unico figlio senza però poterlo indicare visto che non sapeva chi fosse. Si era aperta quindi la questione dell’eredità e il giudice per risolverla propose di disseppellire il corpo del padre e legarlo ad un albero. I figli avrebbero dovuto colpire nel modo più preciso possibile il corpo del padre con delle frecce. Il più bravo sarebbe stato considerato il vero figlio e avrebbe ricevuto l’eredità. I primi due giovani non esitarono un istante e scoccarono le loro frecce mentre il terzo inorridì e affermò che avrebbe rinunciato all’eredità piuttosto che infierire su quel corpo: era la prova attesa dal giudice che lo dichiarò figlio legittimo ed erede[21].

Nel Medioevo c’e’ quindi un cambiamento radicale della figura paterna che sviluppa un’idea di padre come divinità spirituale che porta l’uomo verso la salvezza. Difatti, anche nelle confessioni di Sant’Agostino, vengono individuate nella figura paterna, oltre ad autorità e potere (tipici del pater familias), anche le caratteristiche di amore e misericordia[22].

Il Rinascimento

La transizione dal Medioevo al Rinascimento fu un passaggio lento e faticoso, che portò con sé inevitabili strascichi, come l’impulsiva violenza, l’odio, la crudeltà, la vendetta.  E nello sforzo del Rinascimento di essere età della ragione e rifiutare i miti, le oscure superstizioni, le paure del Medioevo, anche la paternità conobbe realtà diverse da quelle riscontrate finora.

In un saggio sull’Europa occidentale nel periodo compreso tra il XIV e il XVIII secolo, George Huppert[23] sottolinea la scarsità di studi in questo periodo anche se, da questo saggio emergono degli spunti interessanti. Innanzitutto nel XVI e XVII secolo si accentua la contrazione della famiglia, soprattutto quella contadina, che già si è iniziata a manifestare nell’XI e XII secolo. Le coppie con più di dieci figli, che ancora erano presenti nel quattrocento, cominciano ad essere casi isolati e anche la famiglia patriarcale, nel mondo rurale di Sennelly (il villaggio francese preso a modello da Huppert) non è più presente. Va infatti delineandosi una famiglia di tipo mononucleare  che tende a disgregarsi assai presto perché i genitori non sono in grado di occuparsi dei figli oltre i loro primi anni di vita e i figli non sono disposti a soccorrere i genitori malati. Questa è la situazione nell’Europa occidentale, mentre per quanto riguarda quella orientale la famiglia è ancora di tipo patriarcale e tale struttura sopravviverà sino al XVIII e XIX secolo.

Tuttavia anche nel Cinquecento continua il rafforzamento della patria potestà: il potere di decisione infatti è anche in questo secolo nelle mani del maschio capofamiglia. Ed è a lui che sia la moglie sia i figli sono completamente subordinati[24].

Ciò nonostante un  fenomeno nuovo nel Rinascimento è che si attenua il potere del padre di decidere le nozze dei figli. Solitamente sono i giovani a fare questa scelta (anche se devono chiedere il consenso ai genitori, permesso che generalmente viene concesso) e la coppia non va a vivere con i parenti. Tale cambiamento tuttavia non riguarda le famiglie ricche e quelle più nobili, nelle quali le questioni dinastiche e di potere e quindi la volontà paterna continuano a condizionare il sentimento e il volere dei figli. Anche l’imposizione paterna sulla professione dei figli comincia a mostrare qualche crepa che si accentuerà nel Settecento. Parlando di arti, ovvero tutti i lavori artigianali e manuali, Thomas More nel suo stato immaginario di Utopia, prevede che i figli seguano di regola le orme del padre ma, se poi il giovane, imparata un’arte desidera apprenderla un’altra gli viene concesso. Dopodiché sceglierà lui quale mestiere esercitare, secondo il suo gusto, a meno che non sia la città ad aver bisogno di uno piuttosto che di un’altro[25].  Ci sono anche illustri esempi di padri che ebbero la sensibilità di capire e assecondare le qualità del figlio: famoso è l’esempio del padre di Giotto, che mandava il figlio a pascolare, fino a quando il bambino, a dieci anni, non fu scoperto da Cimabue mentre disegnava una pecora su lastra con un sasso appuntito. Cimabue chiese al padre del fanciullo, Bondone, se lo lasciava andare con lui a Firenze ed egli amorevolmente glielo concesse[26].

Altro importante aspetto nel Rinascimento è che inizia ad esserci un minimo interesse per l’educazione all’infanzia. Per esempio, i collegi prendono in molti casi il posto della scuola libera del Medioevo: da una semplice sala affittata per le lezioni  si passa a veri e propri istituti, nati dapprima per l’istruzione dei poveri e poi aperti anche, col crescere della loro fama, ai figli delle famiglie abbienti.

Cominciano inoltre a comparire trattati di pedagogia: all’estero se ne occupò per esempio Erasmo da Rotterdam che nel 1530 pubblicò l’educazione civile dei bambini,  in cui scrisse che, in quanto a rispetto, i genitori venivano subito dopo Dio e che nessun titolo era più degno di onore di quello di madre e padre[27]. In Italia invece si occuparono di pedagogia, Enea Piccolo Mini, gli umanisti Pier Paolo Vergerio e Maffeo Vegio. Uno dei trattati più famosi rimane quello di Leon Battista Alberti: il trattato morale della famiglia(1434). Molto del libro primo di questo trattato è dedicato ai padri ed ai figli. Il pater familias severo ed amorevole, assolve ai suoi compiti con saggezza ed equilibrio mentre il figlio deve rispettare il genitore ed integrarsi con la famiglia, onorandola con la sua condotta. Perché ora c’è un valore che ha assunto un risalto nuovo e di cui il padre è garante e tutore: la rispettabilità. Alberti accenna anche ai doveri dei padri: “sarà da stimare naturale a’ padri che nulla lascino adrieto per nutrire e mantenere quelli che sono di sé usciti e per sé nati”[28] .

Se anche un accenno di interesse e di tutela per l’infanzia appare durante il Rinascimento, immutata è invece la sorte di chi rimane orfano in tenera età; infatti come scrive Huppert essi sono facilmente vittime di vessazioni e non vi è nessuno a difenderli.

Un discorso a parte merita il diverso modello di rapporto genitori-figli proposto dalla riforma protestante il cui massimo esponente è Lutero. Con la Riforma i sacerdoti non sono più solo padri spirituali ma divengono padri in carne ed ossa e dal canto loro i capifamiglia assumono una forte funzione di ministro del culto privato. Il padre quindi oltre a svolgere le funzioni di famiglia è ora anche controllore spirituale. Questa valorizzazione della paternità ha anche conseguenze di ordine pratico, ad esempio, i protestanti misero l’accento sulla responsabilità dei padri anche verso i figli illegittimi e sull’obbligo della madre di allevarli tutti indistintamente. Compito delle madri era quello appunto di allevare i figli nei primi anni della loro vita ma, spettava ad entrambi i genitori farsi carico di una quota di responsabilità nella crescita dei figli[29].

Inoltre, in connessione con la dottrina protestante borghese della Riforma si verifica un consolidamento dell’autorità del pater familias. Una delle ragioni di questo rafforzamento è dovuto al crollo della gerarchia cattolica e per questo al capo della famiglia viene attribuita una dignità quasi sacerdotale. Quindi, con la Riforma il padre consolida la sua autorità e nello stesso tempo si fa interprete domestico della cura che Cristo dedica ai suoi figli[30].

Anche durante il Rinascimento c’e’ quindi il rafforzamento dell’autorità paterna e si assiste allo sviluppo dell’idea dell’abitazione privata, intesa come simbolo di uno spazio interiore che deve essere curato e valorizzato e, all’interno del quale, può agire l’autorità paterna. La costruzione di questo spazio abitativo intimo si pone alla base del processo che darà vita alla diffusione della famiglia mono-nucleare[31].

Il Seicento

Questo non è un secolo di molti cambiamenti per quanto riguarda la paternità.

Il padre continua ad essere molto presente ma spesso ancora poco sensibile alle esigenze dei figli che debbono ancora sottostare al volere del genitore e sono soprattutto le femmine a subire con più sofferenza le scelte paterne. Nulla invece cambia per i bambini abbandonati, lasciati a se stessi e per questo spesso dediti all’accattonaggio.

Comunque un sensibile influsso sul modo di intendere la paternità venne dato da John Locke, filosofo, diplomatico, politico che attraverso la sua opera “i pensieri sull’educazione” rinnovò profondamente i metodi educativi dei fanciulli.

In tale opera Locke mette ampiamente in risalto come il senso di libertà sia innato nel fanciullo e il fatto che apprenderà bene solo ciò che volontariamente e con piacere deciderà di imparare. Locke ribadisce più volte che i frequenti rimproveri e le frequenti percosse devono essere scrupolosamente evitati tranne che in determinate occasioni o in situazioni estreme come ad esempio in caso di ostinazione, ribellione, vizi inaccettabili. Per il filosofo l’approvazione e la disapprovazione sono gli incentivi dell’animo più potenti di ogni altro. Altro principio a cui Locke fa riferimento è che i bambini devono essere educati fin da piccoli a non commettere le sevizie agli animali e soprattutto, i genitori devono avere rispetto dei figli se vogliono a loro volta essere rispettati e ubbiditi.

In particolare, quando parla della figura del padre, essa  deve essere una figura che susciti amore e rispetto finché il figlio è piccolo e conservare amore e amicizia più avanti. Il padre poi non dovrebbe lasciare troppo spazio al precettore, ma intervenire personalmente quando è necessario nell’educazione del figlio[32].

Nonostante l’innovazione sui metodi educativi proposti da Locke, il Seicento, non autorizza troppe speranze al cambiamento ed è soprattutto un secolo di transizione mentre carico  di  conseguenze sarà il secolo successivo.

Il Settecento

Se il Rinascimento è stato un periodo di grandi contraddizioni (come tutte le epoche di forte transizione storica), il Settecento è un secolo di grandi rivoluzioni sia nel senso letterale del termine che nel senso di grandi novità e cambiamenti.

È infatti in questo secolo che l’infanzia comincia ad essere oggetto di attenzione, che la disciplina impartita agli scolari comincia a perdere, anche se non dappertutto, la brutalità umiliante di certe punizioni fisiche, che la pedagogia, con Rousseau, Kant, Locke sale a moderna teoria dell’educazione e che, infine, appare la pediatria.

In questi anni la figura del padre mostra una trasformazione come non si vedeva da moltissimo tempo: la sua autorità inizia a vacillare e i suoi connotati psicologici e morali mutano visibilmente. Charles-Louis de Secondat noto come barone di Montesquieu ritiene che in Francia, paese che farà da modello a molti altri, il mutamento dei rapporti interpersonali all’interno della famiglia, sia parte di una più ampia e negativa trasformazione: figlie che non seguono più le tradizioni delle loro madri, donne troppo libere, gioventù sfaccendata. E in questo quadro la paternità assume fisionomie mai viste: il padre comincia a lasciare al figlio libertà di scelta. Ad esempio lo stesso Montesquieu nel parlare dei figli afferma: “ son vissuto con i miei figli come con degli amici – e rivolgendosi al figlio dice – figlio mio, sarete magistrato o uomo d’armi. Poiché dovete rispondere voi del vostro stato, sta a voi sceglierlo[33]”.

Inoltre la nozione giusnaturalista della paternità che ha dominato dal tempo dei romani viene superata in quanto il diritto di natura non conduce più al padre ma, incredibilmente, alla madre. Non si nega il diritto paterno, ma esso non deriva più dalla natura ma dal vivere civile e dalle sue leggi. Per quanto riguarda invece i principi sui quali si è fondata fino ad allora la famiglia in Europa, rimangono sostanzialmente gli stessi.

Una novità del Settecento è che in questo secolo un giovane figlio può avere qualche speranza di sottrarsi alla volontà paterna opponendovi la propria. Ad esempio, Cesare Beccaria, affrontò un durissimo scontro con il padre quando, invaghitosi di Teresa Blasco, decise di sposarla. Fu persino messo agli arresti domiciliari per tre mesi (era un diritto del padre),  ma alla fine Cesare sposò lo stesso Teresa ed in seguito riuscì persino a riappacificarsi con il padre[34].

La novità di rapporti nella famiglia nobile del Settecento è l’attenzione che viene rivolta ai figli. Attenzione che è spesso una forma di vezzeggiamento alla moda che rispecchia la frivolezza tipica della corte e dei nobili francesi. Tuttavia, la nuova comprensione del dominio paterno si riflette nella presenza sempre più rara del padre-tiranno e in quella sempre più frequente del padre amoroso e pieno di premure per il bene dei singoli membri della famiglia.

Quindi, in questo secolo vediamo che l’infanzia comincia ad essere oggetto di attenzione e il diritto di natura conduce alla madre e, nello stesso tempo, inizia a indebolirsi l’autorità paterna.

L’Ottocento

L’Ottocento è il secolo del padre. I processi culturali, economici e politici che caratterizzano l’intero corso del XIX secolo sono caratterizzati dal comune denominatore “padre” sia come ideale regolativo le prassi politiche che come principio autoritativo in relazione al quale far discendere usi e costumi familiari e societari.

Questo secolo porta con sé una grande novità per quanto riguarda la storia dei padri e dei figli: non ci sono più solamente descrizioni del rapporto padre-figli dei ceti abbienti, della classe dominante ma finalmente si inizia a raccontare di padri e figli contadini, operai, borghesi. Balzac, Maupassant, Zola, Hugo in Francia, Twain in America, Dickens in Gran Bretagna sono alcuni esempi di scrittori che nella loro rappresentazione della società borghese o proletaria hanno avuto ben presente il rapporto padre-figli. In Italia il Verismo di Verga e Capuana comincia a raccontare la vita di pescatori, contadini, piccoli borghesi osservando la relazione che lega i genitori ai figli.

In questa fase specifica, il criterio di differenziazione principale in relazione al quale analizzare i diversi assetti familiari è senza dubbio quello economico e l’unico criterio omologante è la centralità del padre quale presenza-assenza in virtù della quale le organizzazioni familiari limitano o ampliano il raggio d’azione, consolidano alleanze o compongono strategie, alimentano valori tradizionali o costruiscono valori. La famiglia borghese è al centro di un cambiamento che avrà ripercussioni notevoli sulla futura concezione della paternità: la scoperta della madre quale responsabile dell’educazione morale della prole.

Nell’Ottocento l’attenzione per l’infanzia si fa più acuta e fioriscono i trattati di educazione e pedagogia. Da più parti si manifesta un attenzione e un amore del tutto nuovi nei confronti dell’infanzia. Un’ attenzione che coinvolge direttamente anche gli uomini. Tuttavia, si registra anche il tentativo di riportare la famiglia ed in particolare il rapporto padre-figli ad un livello di compostezza e severità vecchia maniera, da molti sentita necessaria dopo le stravaganze dell’Illuminismo e le follie rivoluzionarie della seconda metà del Settecento.

La Restaurazione, periodo storico che tradizionalmente si fa iniziare con il Congresso di Vienna, non fu solo il ripristino dell’ancien ma fu anche restaurazione sociale e familiare, che cercò di rinsaldare la posizione del padre. L’impero austro-ungarico e l’Inghilterra dell’età vittoriana sono i paesi in cui la restaurazione ha più successo e per un secolo riusciranno a ripristinare l’auctoritas che voleva ricordare quella degli antichi pater familias.

Molte fonti letterarie parlano di un padre severo e distante come ad esempio Hermann Hesse che definisce questo periodo “il regno del padre”. Infatti, fatta eccezione per alcune famiglie di particolare cultura e sensibilità, la maggior parte dei rapporti tra genitori e figli è basata quasi esclusivamente sull’ubbidienza. In Europa inoltre ci sono Paesi dove la paternità è vissuta in modo ancor più severo e distaccato. Ad esempio lo scrittore viennese Stefan Zweig sintetizzando il mondo che gli si presenta scrisse: “noi dovevamo essere educati anzitutto a rispettare come perfetto quello che sussisteva, a ritenere infallibile l’opinione del maestro, indiscutibile la parola del padre, a vedere l’organizzazione dello stato quale assoluta e valida in eterno”[35].

I codici e le leggi che nel XIX secolo disciplinano la patria potestà all’interno della compagine domestica si rivelano ottimi indicatori del nascente patriarcato domestico. Il codice Napoleone del 1804 testimonia di un ritorno all’autoritarismo paterno dopo che la rivoluzione francese aveva decapitato tutta una serie di valori e tradizioni di marca patriarcale ad appannaggio dell’idea universale della fratellanza. Quella del codice Napoleone è una famiglia che, pur ricostruendosi su una trama nettamente individualistica, con la dissoluzione degli antichi ruoli sovra familiari ad autorità patriarcale, si presenta come una famiglia forte in un forte Stato, con una struttura di comando incentrata sulla potestà paterna e maritale[36].

Il ruolo del padre è talmente predominante da eludere completamente nel codice la presenza della famiglia quale portatrice di diritti e doveri.

Nel secolo del padre quindi c’e’ un intensificarsi radicale delle norme in materia di patria potestà e ciò che permane del padre nel corso del secolo è la sintesi del patriarcato domestico e autorità statuale[37].

Un fenomeno di grande portata, con importanti effetti sul rapporto padri-figli, è la rivoluzione industriale che ebbe inizio in Inghilterra verso la metà del Settecento e che segnerà l’inizio di un processo di profonda trasformazione sociale che muterà in senso irreversibile il legame padre-figlio in Europa. Da questo momento in poi si potrà dire: “ c’era una volta il padre”. Fino a questo punto infatti, egli era stato una figura dai contorni ben definiti, che fosse artigiano o contadino o commerciante, che la moglie l’aiutasse o meno nel lavoro, egli era detentore di un mestiere e di un’autorità. La sua professione era un patrimonio prezioso che veniva trasmesso ai figli maschi, non era solo un insegnamento di tecniche e strumenti, ma un passaggio di valori e regole. Ed era un elemento di coesione tra padri e figli, ricco di messaggi inespressi e ineguagliabile strumento di conoscenza reciproca. I figli, come in un rito di passaggio, ricevevano un testimone ideale dal padre e si facevano da ragazzi a uomini. In questo secolo invece, si sfalda la famiglia patriarcale e si attua la separazione del padre dal figlio e la svalutazione della figura paterna da parte di una visione femminile materna[38]. Il padre abbandona infatti i campi o la bottega per l’opificio, esce dalla famiglia e lascia i figli alla madre. Per molto tempo, quindi, sarà solo lui la forza lavoro mentre la moglie prende il suo posto all’interno della famiglia e quindi nella cura dei figli.

Il Novecento

Nei primi anni del nuovo secolo, almeno fino al primo conflitto mondiale e per certi versi fino al secondo, la figura del padre in Europa non si differenzia molto da quella della seconda metà dell’Ottocento.

La famiglia, specie nella provincia, continua ad essere mononucleare, secondo il modello che si è affermato già nel medioevo; e soprattutto continua ad essere patriarcale nonostante gli effetti dell’industrializzazione.

Nei primi anni del Novecento quindi la letteratura rappresenta un padre che è ancora il più delle volte un pater familias, figura autoritaria alla quale si deve obbedienza e rispetto prima ancora che amore. I trattati pedagogici poi seguono lo stereotipo della rilevanza esclusivamente materna a cui si contrappone una paternità residuale quanto a significato affettivo[39].

La stessa Maria Montessori (1870-1952) rimarca continuamente la preminenza della figura materna nella cura dei figli anche se afferma che “istinto di maternità non è collegato solo con la madre, per quanto, procreatrice della specie, ella abbia la massima parte in questo compito protettivo; ma è nei due genitori”[40]. Vediamo quindi che già da questa affermazione l’istinto materno ovvero tenerezza protezione e accadimento è fatto risalire anche al padre.

Ma la vera rivoluzione nella concezione della figura paterna avverrà proprio negli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento ad opera di Sigmund Freud. L’interesse di Freud per la relazione paterna è manifestato in numerose opere, ad esempio, nei più famosi casi clinici studiati da Freud hanno al centro di ogni situazione complessa la figura del padre: da Dora al piccolo Hans, dall’uomo dei lupi all’uomo dei topi, per non parlare dell’episodio del presidente Schreber. Per Freud il padre è la più antica, la prima e, per il bambino, l’unica autorità, dalla cui onnipotenza hanno avuto origine nel corso della storia delle civiltà umane, le altre autorità sociali. È soprattutto dal padre, o meglio dall’identificazione con lui, che il bambino deriva il proprio “Super-io”, quell’istanza che si forma nell’Io che rappresenta un giudice, un censore che dovrà formare gli ideali e la coscienza morale. E fra le immagini che si sono formate nell’infanzia, nessuna è più importante, per il giovane o per l’uomo adulto, di quella del proprio padre[41].

L’inventore della Psicanalisi mostra naturalmente, alcuni aspetti tipici del Pater Familias del XIX secolo: nella sua famiglia impose rispetto, buona educazione, fermezza e decoro borghese, non era molto espansivo, parlava raramente ai figli del suo lavoro e affidò alla moglie quasi tutta la responsabilità della loro formazione. Tutto ciò naturalmente, non significa che Freud non amasse i figli, come si evince da molti riferimenti epistolari, specie nelle lettere inviate all’amico Fliess, ai figli, alle loro prodezze e all’orgoglio di essere padre.

Comunque nella prima metà del Novecento pur nelle diverse esperienze, le testimonianze letterarie offrono un’immagine abbastanza uniforme della figura paterna. Sembra che la parola d’ordine dei padri di allora fosse il silenzio, nel senso che tra padri e figli non intercorrevano molte parole e meno che mai gesti di affetto.

I due conflitti mondiali hanno una carica dirompente per l’unità della famiglia cosi come era precedentemente intesa. Il primo esodo del maschio dalla famiglia provocato dalla rivoluzione industriale e dal contemporaneo inurbamento cambia fisionomia con le due guerre: l’uomo lascia la casa e il lavoro per la divisa. Per anni le donne divengono le uniche artefici dell’educazione dei figli, gestiscono da sole se stesse e la propria prole e spesso entrano nel mondo del lavoro svolgendo funzioni tipicamente maschili. Se l’avvento della fabbrica aveva segnato una svolta epocale per la famiglia tradizionale, le due guerre contribuiscono a trasformare radicalmente i rapporti uomo-donna, donna-società e genitori-figli. Molti studi individuano negli anni del conflitto mondiale l’origine di un  fenomeno di supremazia femminile e materna che si svilupperà appieno solo più tardi.

Nel dopoguerra italiano invece, la suddivisione dei ruoli è ormai acquisita e se ne possono trovare innumerevoli testimonianze letterarie e non: la madre è la più cara confidente e consigliera mentre il padre è l’autorità costituita e l’informatore sempre aggiornato[42].

Fino agli anni della contestazione, i modelli della famiglia italiana riproducono uno stereotipo che è insieme il risultato delle aspirazioni del secolo precedente, delle velleità del fascismo e della forte influenza della Chiesa e della Democrazia Cristiana dove al centro c’e’ una mamma tenera, premurosa, attenta e onnipresente. La saggistica psicologica e pedagogica nel secondo dopoguerra ha più strumenti di valutazione e comprensione grazie a Freud e i suoi seguaci, tuttavia, nello sviluppo del bambino ciò che conta è la madre. Nessuno, tranne poche eccezioni, si sogna di ipotizzare una qualche sorta di istinto paterno.

Negli anni del cosiddetto “boom economico” è la donna la regina della casa mentre il marito lavora duramente per garantire ai suoi famigliari un dignitoso tenore di vita. Non c’è dubbio che la parola del padre in famiglia sia ancora importante però questa figura conta poco meno che nulla; ai padri tirannici del secolo scorso, sono subentrate le madri. Anche Winnicott, Harlow, Spitz, Bowlby, si occupano della figura del padre assegnandogli però quasi esclusivamente funzioni indirette, il padre è visto come un genitore ausiliario, necessario come protettore e coadiutore della madre nelle cure del bambino[43].

Solo verso la fine degli anni settanta il padre comincia ad assumere una sua rilevanza diretta.

Bibliografia

[1] Quillici M.,2010, Storia della paternità, Fazi Editore, Roma

[2] Stramaglia M., 2009, I nuovi padri, EUM edizioni, Macerata

[3] Malinowski B., 1976, Il mito e il padre nella psicologia primitiva, Newton Compton, Roma

[4] Bachofen J.J., 1990, Storia del Matriarcato, Fratelli Melita Editori, La Spezia

[5] Lenzen D., 1994, Alla ricerca del padre, Laterza, Bari p.39

[6] Quillici M. op. cit. p. 16-17

[7] Giallongo A., 1987, L’immagine della donna nella cultura greca, Maggioli Editore, Rimini p.59

[8] Plutarco, 2001, Vite parallele, Pericle, Rizzoli, Milano

[9] La phratria è una sorta di raggruppamento di famiglie con spiccata funzione di mutuo soccorso nei confronti dei suoi membri

[10] Aristotele,2005, Politica, Laterza, Bari, p.55, 3-4

[11] Stramaglia M. op. cit. p.38-46

[12] Cicerone,2006, La retorica a Gaio Herennio, Mondadori, Milano

[13] Veyne P., 2000, La vita privata nell’impero romano, Laterza, Roma

[14] Dupont F., 1990, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, Laterza, Bari, p.234

[15] Massimo V.,1997,  Detti e fatti memorabili, UTET, Torino

[16] Massimo V., op. cit.

[17]  Gatto L., 2006, Il medioevo giorno per giorno, Newton Compton /il giornale, Milano p.169

[18] Tuchman B.,1980, Lo specchio lontano, Mondadori , Milano p.517

[19] Duby G.,1989, Medioevo maschio, Laterza, Bari , p.199

[20] Tuchman B., op.cit. p.72

[21] Gatto L, op. cit., p.183

[22] Stramaglia M. op,cit. p.65

[23] Huppert G., 1999, Storia sociale dell’Europa nella prima età moderna, il Mulino, Bologna

[24] Barbagli M., 2000, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in italia dal xv al xx secolo, il Mulino, Bologna, p.13

[25] More T.,1970, Utopia, UTET, Torino, p.141

[26] Vasari G., 2003, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Newton Compton, Roma, p.150

[27] Erasmo da Rotterdam,1993,  L’educazione civile dei bambini,Armando Editore,Roma, p.73

[28] Alberti L, 1989,  Libri della famiglia,Einaudi,Torino

[29] Goody J., 2000, La famiglia nella storia europea, Laterza, Bari p.139

[30]  Trumbach R., 1982, La nascita della famiglia egualitaria, il Mulino, Bologna p.183

[31] Stramaglia M., op. cit.

[32] Locke J., 1970,Pensieri sull’educazione, la Nuova Italia, Firenze

[33] Montesquieu C., 1943, Riflessioni e pensieri inediti, Einaudi, Torino p.225

[34] Quillici M. op. cit. p.352

[35] Zweig S.,2005, Il mondo di ieri, Mondadori, Milano, p.35

[36]  Melograni P.,1988, La famiglia italiana dall’ottocento ad oggi, Laterza, Roma – Bari, p.633

[37] Stramaglia M., op. cit.

[38] Bon Vecchio C. , Risè C.,1998, L’ombra del potere, Red edizioni,p.101

[39] Quillici M. op. cit.

[40] Montessori M.,1989, Il segreto dell’infanzia, Garzanti, Milano, p.282

[41] Freud S.,1982, La psicologia ginnasiale, in opere  vol. VII, Boringhieri, Torino, p.479

[42] Manara M.,1957, Discorriamo dei nostri figli, Istituto la Casa, Milano, p.73

[43] Quillici M., 1988, Il padre ombra, cap. III ruoli e funzioni paterne, Giardini, Pisa, p. 46-63